“Ricordo che ero davanti la tivvù e che d’un tratto si
interruppero le trasmissioni su tutti i canali. Ricordo la cronaca. Le scene
dei film di guerra che erano però verità e non finzione. Io di quel pomeriggio
mi ricordo tutto e lo conservo gelosamente… perché quell’evento ha contribuito
a farmi diventare la persona che sono e io amo moltissimo la persona che sono.
Se avessi mai scritto un romanzo sulla Sicilia, inevitabilmente, avrei dovuto
raccontare dell’omicidio di Paolo Borsellino.” – Alessandro Cortese
Un palazzo della memoria, le fondamenta de “La mafia
nello zaino” sono i ricordi personali dello scrittore siciliano Alessandro
Cortese (Messina, 1980).
Edito nel 2022 da Il ramo e la foglia edizioni con
copertina dell’artista palermitano Giulio Rincione, “La mafia nello
zaino” è un romanzo che s’addentra nella buia realtà della Sicilia, quella
menzionata nel titolo: la mafia.
Con la voce e le aspettative di un ragazzino di appena dieci
anni, Alessandro Cortese amalgama ricordi della propria infanzia all’invenzione
letteraria per ricordare persone uccise in modo atroce come Paolo
Borsellino, Giovanni Falcone, padre Pino Puglisi, ed il ladro Nino Sboto.
“La mafia nello zaino” è la storia di un bimbo, di un
nano e di un assassino: ogni personaggio recita al meglio la sua parte
cercando di assecondare il Fato.
Alessandro Cortese si è mostrato molto disponibile
nel rispondere ad alcune domande non solo inerenti alla sua pubblicazione ma
anche sulla sua vita e sulle sue esperienze. Buona lettura!
A.M.: Salve Alessandro sono trascorsi otto anni dalla
pubblicazione del romanzo storico “Polimnia” e devo ammettere che mi hai
sorpresa con “La mafia nello zaino” perché dai toni aulici sei passato al
colloquiale e regionale siciliano di un picciruddu di dieci anni. Che
cosa è avvenuto in questi anni di silenzio editoriale?
Alessandro Cortese: Ciao Alessia, risponderei volentieri
che sono andato a letto presto, ma non sarebbe nulla di più falso… ho
perso il conto delle ore di sonno non goduto negli ultimi anni: non sono una
persona che rimane ferma, piuttosto ho quell’inquietudine che mi spinge a fare.
Così fino al 2017 ho scritto… ho portato avanti molti altri lavori letterari,
soprattutto di notte e di mattina presto, nelle ore che non dedicavo al lavoro
retribuito, e per me scrivere è sempre stata una forma di autoanalisi o, se
preferisci, è sempre stato lavorare su me stesso. Dopo ho effettivamente smesso
di farlo… “La mafia nello zaino” è un romanzo del 2015 e a rivederlo oggi, che
se ne va per la sua strada, mi sembra una vita fa. Oggi rimango circondato da
appunti su storie lasciate incompiute che, mi piace pensare, prima o poi
concluderò. E mi capita di riflettere sul fatto di non aver più scritto… magari
ho semplicemente raggiunto un equilibrio che prima non avevo e, senza una
ricerca personale, anche le mie storie sembrerebbero prive di forza.
Tu lo sai, le mie storie hanno sempre vissuto di una
forza incredibile. Con quella forza Lucifero si è ribellato contro il regime,
in Eden, e si è rialzato dal fondo del baratro, in Ad Lucem. Con quella stessa
forza, Leonida e i suoi spartani, insieme ai greci, hanno resistito alle
cariche dell’invasore persiano in Polimnia. Poi quella forza l’ho data alla
curiosità di un picciriddu, piccolo ma grande, per provare a capire cos’è la
mafia, ed è vero che il mio registro stilistico è cambiato completamente: Eden,
Ad Lucem e Polimnia lavorano sul mito e il mito pretende epicità… e non saprei
essere epico senza essere aulico.
Ne “La mafia nello zaino” racconto una storia inventata
usando elementi autobiografici… inutile dirti che un picciriddu siciliano bravo
a passare da un’avventura all’altra restando per strada non parla in modo
aulico ma, piuttosto, è già tanto che usi un po’ di italiano in mezzo a tutto
quel siciliano.
Aggiungo che ho sempre saputo scegliere i registri nelle
mie narrazioni e in realtà non per merito mio: sono sempre stati i personaggi
delle mie storie che, venuti a trovarmi, hanno sempre parlato in un certo modo.
Io li ho semplicemente ascoltati.
A.M.: La copertina del romanzo è stata curata
dall’artista palermitano Giulio Rincione, un’illustrazione che riporta in modo
preciso alcuni dettagli importanti, come ad esempio la presenza delle duemila
lire nella tasca dei pantaloni del picciriddu ed i fumi neri che
traboccano dalle torri cilindriche della raffineria. Come hai conosciuto
Giulio?
Alessandro Cortese: Hai presente quando immagini le cose?
Se hai un’immaginazione come si deve, capita che quanto hai immaginato tu ce
l’abbia davanti agli occhi, come fosse qualcosa di concreto.
Io ho sempre avuto le idee chiare, su cosa ci dovesse
essere sulla copertina dei miei libri, e così è stato anche per “La mafia nello
zaino”. Sapevo che poteva funzionare soltanto un’immagine che fosse cartoonesca
ma non troppo, seria ma non troppo, e ho pensato ci fosse una persona soltanto
capace di realizzarla, un artista che è stato la mia unica scelta e l’unico che
ho contattato: Giulio Rincione.
Giulio è uno degli illustratori più importanti del mondo,
ha uno stile assolutamente unico e, soprattutto, è siciliano. Potrà anche
sembrare campanilismo, il mio, ma non lo è: certe cose nel mio romanzo potevano
essere veramente colte soltanto da un siciliano… e questo dissi a Giulio,
quando lo contattai. Gli dissi che ero convinto che solo un altro siciliano
avrebbe saputo raccontare il mio romanzo con un’immagine e basta. E così è
stato: nessuna prova, nessun bozzetto. Giulio ha letto il libro e ha illustrato
la copertina perfetta.
La sua copertina sarà, probabilmente, uno dei motivi che
mi faranno gioire sempre dell’idea di essere tornato nel mondo letterario, dopo
averlo abbandonato. Basta guardarla per capire quanti dettagli trovino posto
perfettamente all’interno della cornice: le due mila lire in tasca al
picciriddu, ad esempio, che vengono rubate dalla borsa di Raffaella all’inizio
del romanzo, o la raffineria sullo sfondo del teatrino dell’Opera dei Pupi.
Nessuno ha suggerito a Giulio cosa disegnare, è tutto frutto della sua visione
artistica… ma se avessi suggerito qualcosa, gli avrei chiesto di mettere in
copertina la raffineria: la Sicilia ha sofferto, e soffre, per la presenza dei
molti petrolchimici che ne hanno devastato tanto il territorio quanto la salute
pubblica; nella Valle del Mela, dove si erge il “mostro”, la raffineria di
Milazzo, ci sono zone limitrofe in cui ogni famiglia ha un malato di tumore in
casa, eppure è tutto normale, sia per lo Stato che per le autorità ambientali;
vivere in Sicilia significa anche questo: si baratta la propria salute pur di
avere in cambio uno stipendio sicuro.
A.M.: “La mafia nello zaino” è un romanzo di finzione
letteraria che riconduce ad eventi accaduti nella realtà, uno di questi è
centrale nel libro e nella vita del protagonista, cioè la presenza del giudice
Falco Di Giovanni e del suo collega Paolo, esempi di persone oneste che cercano
non solo di aiutare a ristabilire una sorta di ordine ma anche di tagliare i
fili del “puparo” che manipola i cittadini come se fossero marionette. Era tua
intenzione palesare l’omaggio a Paolo Borsellino e Giovanni Falcone perché sin
da subito li hai presentati come tali, dunque, ti chiedo perché un siciliano di
Messina sente il dovere di ricordare episodi accaduti nel 1992?
Alessandro Cortese: Ho scritto “Il bimbo, il nano e
l’assassino” (inizialmente il titolo era questo, “La mafia nello zaino” è stata
una fortunata intuizione dei miei editori, Giuliano Brenna e Roberto Maggiani
de Il Ramo & e la Foglia, NdA) nel 2015, di getto. In 5 mesi. Per me era un
periodo particolare… a tutti gli isolani, andati via dall’Isola, succede che a
un certo punto della vita si voglia tornare a casa. È il richiamo della terra
ed è il richiamo del sangue o, se preferisci, è il canto della sirena. Davvero
ho pensato di tornare a casa, nel 2015… ma chi va via non può più tornare. Non
davvero. Ho quindi voluto farlo ma non fisicamente, l’ho fatto in modo a me più
congeniale, costruendo un palazzo della memoria.
Nel mio palazzo della memoria, il paese è diventato simbolo
dell’intera regione: la Sicilia inizia quando entri in paese e uscire dal paese
significa uscire dalla Sicilia. Ho usato precisi riferimenti geografici non
badando al fatto che non fossero poi corretti nel contesto locale, perché a me
interessava costruire una Sicilia fatta di ricordi. Sono gli splendidi ricordi
di quando ero un ragazzino che correva, con gli amici, in BMX rossa ogni
pomeriggio. Sono i ricordi che mi porterò fino a quando sarò vecchio, perché mi
ricordo ogni minuto di quei pomeriggi e ogni avventura vissuta in posti che, in
Sicilia, sono esattamente uguali e come erano più di trent’anni fa, quand’ero
quel bambino.
Ho smesso di essere quel bambino quando uccisero Paolo
Borsellino: l’omicidio di Falcone fu per me più distante… mi giunse la notizia
ma non vidi servizi ai telegiornali, fu come se mi avessero riferito la cosa ma
non ci rimasi davvero a pensar su.
Per Borsellino fu diverso. Ricordo che ero davanti la
tivvù e che d’un tratto si interruppero le trasmissioni su tutti i canali.
Ricordo la cronaca. Le scene dei film di guerra che erano però verità e non
finzione. Io di quel pomeriggio mi ricordo tutto e lo conservo gelosamente…
perché quell’evento ha contribuito a farmi diventare la persona che sono e io
amo moltissimo la persona che sono. Se avessi mai scritto un romanzo sulla
Sicilia, inevitabilmente, avrei dovuto raccontare dell’omicidio di Paolo
Borsellino.
A.M.: “«La mafia?» lo sentii ripetere. «E che è?».
[…] «Persone» gli risposi. «Che fanno cose cattive». […] «Ma chi t’ha insegnato
questa parola?» volle sapere mia madre […] «Il giornale. L’ho letta». […] «E
sai perché non hai visto la mafia?». […] «Perché la mafia è come Colapesce. È
una leggenda che si sono inventati in televisione, per raccontare qualcosa ai
vecchi che non lavorano più e restano a casa tutto il giorno. I vecchi guardano
i telegiornali, che gli raccontano qualcosa vera e qualcosa no. La mafia non è
vera».” Il nostro piccolo eroe, il picciriddu, è incuriosito da
questa entità – la mafia – di cui in paese non si vuole parlare; l’argomento
diventa appassionate e si rivolge ai genitori la cui risposta lo lascia ancora
più disorientato. Ritengo che questo breve dialogo sia come il taglio
dell’occhio nel film di Luis Buñuel, una cesura netta con il passato che apre
al caos. Quand’è stata la prima volta che hai sentito la parola “mafia”? Hai
usato elementi autobiografici per scrivere il dialogo sopracitato?
Alessandro Cortese: Non saprei dire quando ho sentito per
la prima volta la parola “mafia”… probabilmente a scuola, o da qualche adulto
che ne parlava, magari da qualcuno che voleva fare una battuta o in
televisione, visto che quand’ero bimbo andava sulla Rai la fiction de “La
Piovra”. Sinceramente non saprei dire, con certezza, quando ho sentito per la
prima volta questa parola. Mentre posso dire con certezza, invece, che quel
dialogo sulla mafia tra il mio picciriddu e i suoi genitori sia uno degli
eventi incredibili che la scrittura sa regalare: sono sempre rimasto convinto
che, quando inizio a scrivere di loro, i miei personaggi vivano di vita propria;
dire che io non gli ho mai messo in bocca le parole che dicono può sembrare
inverosimile, ma davvero io resto in ascolto di ciò che hanno da dire… la
sensazione che ho spesso provato è di scrivere sotto dettatura, facendo
attenzione a cogliere ogni parola, un po’ come mi capitava all’università
quando prendevo appunti a lezione, solo che ascolto gente che non esiste
davvero, non in questo mondo almeno.
Ma per quanto quel dialogo non sia autobiografico, sono
moltissimi gli elementi che lo sono invece… Giulio il ladro, il ragazzo ucciso
all’inizio del mio libro, è in realtà Nino Sboto e davvero a lui hanno tagliato
le mani perché rubava; allo stesso modo, la scena dell’omicidio fuori dalla
sala giochi è il racconto esatto di quanto successe quel pomeriggio, io stavo
giocando ai videogames e ammazzarono a colpi di pistola un tizio a 50 metri di
distanza.
Come dicevo, questo mio romanzo è un palazzo della
memoria e le fondamenta di questo edificio sono i ricordi personali che
probabilmente non potrò mai dimenticare, per il carico emotivo che sono stati
capaci di concentrare. Il resto è il racconto di personaggi nati tra quei
ricordi, che usano alcune cose del mio passato per dire al lettore di loro.
A.M.: “«Ma non è colpa mia!» iniziai a pigghiari
p’avanti per non restare indietro. «La mafia m’ha fatto venire questi dubbi!».
E quando pronunciai la parola mafia, l’espressione di padre Pippo tornò uguale
a quella che gli avevo visto fare davanti all’avvocato Cantarò coperto dal
lenzuolo, quindi prese una sedia e s’assittò, come se le gambe gli fossero
invecchiate di colpo e non ce la facesse a reggersi.” Padre Pippo è
accostabile a Falcone ed a Borsellino come personaggio positivo ma non solo
perché, anche in questo caso, ci troviamo davanti ad un caso di cronaca bensì
perché anche se il suo “mestiere” lo inserisce nei “segreti di mafia” si
adopera per aiutare i giovani togliendoli dalla strada. Uno dei personaggi
“negativi” che instaurerà un rapporto con il picciruddu è presente anche
nel sottotitolo del libro: il nano e più precisamente “Antonio Izzo
’ngiuriatu Ninu u nanu”. Anche il nano proviene dalla realtà?
Alessandro Cortese: Padre Pippo è il mio ricordo di padre
Pino Puglisi. Io vengo da una realtà cittadina nella quale i Salesiani
rappresentavano, per noi bambini, il posto in cui crescere lontani dalla
strada. Ai Salesiani ho giocato a pallone e pure a scacchi, ho mangiato qualche
buon gelato, ho conosciuto gente che mi ha insegnato come ascoltare la musica
che mi avrebbe fatto compagnia per il resto della vita, ho litigato con altri
ragazzi, fatto la corte a qualche ragazza, pregato e bestemmiato. Per me i
Salesiani hanno rappresentato esperienza di crescita da ogni punto di vista, e
i preti dei Salesiani mi hanno dato altrettanto.
Quando padre Puglisi fu ucciso, ricordo che pensai
nessuno potesse salvarsi da un proiettile, neppure uomini che hanno il favore
di Dio. Ma pensai pure che a morire non fosse solo un prete, che non si fosse
sparato solo a una persona… era come se avessero sparato allo spirito dei
Salesiani e al loro essere alternativa alla strada.
I Salesiani del mio paese non hanno salvato tutti ma
hanno salvato molti, esattamente come fece padre Puglisi a Palermo. Celebrare
padre Pino Puglisi, nel mio romanzo, significava per me fare un omaggio a quel
senso di protezione che i Salesiani hanno sempre saputo darmi.
Non è ispirato a nessun personaggio reale, invece, Ninu u
nanu, il boss mafioso con cui il mio picciriddu si misura per tre volte nella
storia: la prima volta è “iniziazione”, la seconda è “consapevolezza” e la
terza è il “finale”, quindi il viaggio di crescita del mio piccolo eroe passa
tutto attraverso il nano che, simbolicamente, è la mafia. La mafia può essere
una persona minuscola, nella realtà, ma quella persona minuscola può diventare
un gigante, quando accresciuta dal potere che riceve. Io sono fissato con il
simbolismo, ‘ché tutto è simbolo me lo ha insegnato Carl Gustav Jung e, se ti
fermi a guardare, i simboli ti circondano… non so scrivere senza usare i
simboli e anche “La mafia nello zaino” è un romanzo mio, da questo punto di
vista.
A.M.: Il romanzo è anche un inno alla Sicilia da
parte di un siciliano che da più di vent’anni vive e lavora nella penisola;
durante la lettura oltre a scoprire chi è l’assassino vengono raccontati miti
come il già citato Colapesce, Scilla e Cariddi prorompono nell’immaginazione
del bambino che gira festosamente nelle strade del paese con la bicicletta.
Vengono descritte le Eolie, lo Stretto di Messina, il bellissimo promontorio
costiero di Tindari, i campi pieni di fiori, il teatro dell’Opera dei Pupi,
l’odore di fritto della vostra cucina tipica. Forse questa non è una domanda ma
un complimento perché chi – come me – ha avuto modo di visitare Milazzo per i
riferimenti geografici (ma il ragionamento vale per qualsiasi luogo dell’isola
se si prendono in considerazione altri elementi del libro) viene catapultato
negli occhi del picciriddu che guarda l’arcipelago o verso ovest “il
verde delle colline […] l’azzurro cristallino […] con sullo sfondo il
promontorio di Tindari e il grande santuario della Madonna Nera”.
Alessandro Cortese: Per un isolano, l’Isola sarà sempre
casa. E per un isolano non c’è forse rimpianto, e colpa, più grande di aver
lasciato l’Isola. Nel corso degli anni, qualcuno mi ha rimproverato di essere
andato via dall’Isola, di non aver dato all’Isola quel che ho dato altrove, di
non aver provato a restare con maggiore determinazione. Chi mi rimprovera
sembra dimenticare che io, per laurearmi, ho fatto ogni genere di lavoro
sottopagato mi si presentasse e, da laureato, poi mi proposero di lavorare,
gratis e per due anni, in un laboratorio per “imparare il mestiere”. In pochi
sanno che io, oggi, sono tra gli insegnanti più famosi d’Italia, grazie alla
mia attività online di insegnamento, e che la stessa attività proposi di farla
a siciliani magicamente spariti quando si sarebbe dovuto parlare di compenso.
A me la Sicilia ha insegnato tanto e tolto molto più di
quanto mi abbia dato: ha tolto il lavoro a mio padre e sono cresciuto in mezzo
a mille difficoltà, ad esempio, e mi ha anche quasi ucciso, quando a 17 anni
sono stato pestato a sangue da parte di un gruppo di una decina di ragazzi, al
centro della piazza del mio paese e sotto gli occhi di amici che non hanno
mosso un dito. Me ne sono andato con piacere e lo rifarei ogni giorno. Ma
nonostante tutto la Sicilia è dove sono nato, dove sono cresciuto, dove ho
imparato e dove sono diventato io. Amo la Sicilia tanto quanto profondamente la
odio… e credo che in questo romanzo siano perfettamente bilanciati l’odio e
l’amore che io provo per casa mia.
Non avrei voluto nascere da nessun’altra parte e non
avrei voluto fare esperienze diverse da quelle che la Sicilia mi ha permesso di
fare. La amerò sempre e per sempre l’avrò nel cuore… ma non ci tornerei
mai.
A.M.: In chiusura una domanda leggera: hai intenzione
di organizzare delle presentazioni del libro in Sicilia?
Alessandro Cortese: Ogni libro che ho pubblicato ha avuto
una o due presentazioni in Sicilia, mi sembrerebbe assurdo non farne adesso che
ho scritto un libro sulla Sicilia. Le farò e so che, come sempre accaduto anche
in passato, saranno occasione per rivedere vecchi amici e per fare nuove
amicizie. Ora ne ho in programma una nella mia città, Barcellona Pozzo di
Gotto, e un’altra a Messina, ne farò una a Montesilvano dove vivo in Abruzzo e
forse ne farò una a Roma, città dei miei editori, e a Milano, dove sono nato
editorialmente grazie a Eden e ArpaNet.
Dopo tanti anni, addirittura otto, tornare in libreria a
presentare un mio romanzo non so cosa possa significare per me… un po’ mi
spaventa, non lo nego, perché non so se sono ancora capace di farlo. Non ho più
le energie di un tempo, non ho neanche la voglia di un tempo, ma mi è sempre
piaciuto mettermi e rimettermi in gioco, e scrivere per me è sempre stato un
gioco meraviglioso. Vediamo come andrà.
A.M.: Salutaci con una citazione…
Alessandro Cortese: Beh, mi sembra obbligato citare uno
scrittore siciliano e il suo omaggio ai palazzi della memoria: “Penso che se
uno potesse correre più presto della luce e sopravanzarla e fermarsi ad
aspettarla in qualche stazione di stella, vedrebbe replicarsi per intero tutto
il rotolo del passato”. È Gesualdo Bufalino che, con la sua “Diceria
dell’Untore”, mi ha insegnato che gli scrittori sanno anche andare più veloce
della luce.
A.M.: Alessandro ti ringrazio per il tempo che hai
dedicato all’intervista, ti ringrazio per la sincerità che ogni volta dimostri
e questo non è mai scontato. Ti seguo nella scelta di un siciliano e cito lo
scrittore di Girgenti Luigi Pirandello: “Abbiamo tutti dentro un mondo di
cose: ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se
nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro
di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore
che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non
ci intendiamo mai!”
Written by Alessia Mocci
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